Sibà. Nella contrada del mattino il sole e già basso sull’ Africa di fronte. Dietro la balaustra, alta sullo spiazzo, la chiesa è un dammuso bianco, dalla volta a botte che ne disegna a onda la facciata. In ombra, lo spaccio del tabaccaio; dentro, dagli scaffali, il paté di capperi screziato di pomodoro secco e peperoncino, lancia promesse. Ancora non lo sappiamo, ma è solo il prologo. Sosta fresca sulla ducchena di pietra accanto alla porta; passano i cani indolenti di Sibà, con i colori delle lave e della terra. Solitari o in drappello, ci guardano un attimo con curiosità svagata; anche loro sembrano immersi in una di¬mensione temporale differente: qui il tempo non soltanto sembra scorrere più lento, ma possedere una qualità diversa, arcaica.
Sibà. Isola nell’isola. Pochi passi a piedi, un incontro, un invito: si profila la prima stazione. L’interno verde acqua del dammuso è piccolo e fresco; seduti intorno al tavolo col padrone di casa, l’offerta del vino: ci arrendiamo volentieri alla dolce violenza dell’ospitalità. Sulla tovaglia a filet arriva il vassoio ovale, tintinnante di piccoli bicchieri, le donne di casa intorno a noi. Il primo assaggio, un altro giro, un altro ancora: ci vengono in soccorso il pane e l’olio degli ulivi tenaci, che strisciano bassi resistendo al vento incessante. Al paté, nelle sporte, si aggiunge l’olio, da portare a casa.
Di nuovo sulla strada bordata di cappero. Ecco la casa di zzu Ture: la casa e la terrazza bianche, appena ondulate, come un lenzuolo candido disteso a sbiancarsi ancora. L’acqua è raccolta al buio, nella cisterna sotto di noi.
Esce la moglie, ci viene incontro: mi torna in mente la gente di una campagna diversa – di ulivi alti sul mare – intatta solo nella memoria. Per chi è stato qui bambino, gli anni si leggono sugli uomini e sulle donne, ma sulle cose è come se fossero scivolati senza far presa.
Zzu Angelo, zzu Ture sembrano adesso fissati in questo tempo che appare sospeso, ma che – anche se lento da sembrare immobile – passerà, cancellerà questa gente ancora antica. E dopo di loro, chissà se questo luogo sarà ancora lo stesso, se la sua aura magica potrà ancora assorbire e trasformare i segni dell’altro tempo, quello che scorre all’esterno. Lungo la strada, le pubblicità di lamiera delle torte gelato hanno soccorso la vecchia porta di legno di una stalla, l’hanno tinta dei loro colori, già mangiati dal sole.
Zzu Ture ci accoglie contento, alto e teso, occhi normanni in un viso di rughe, in mano le chiavi del dammusello rustico: fuori il pomeriggio è quasi terminato; dentro, nell’odore dolce del vino, la lampadina illumina le botti, gli attrezzi del lavoro, le sedie in circolo: la seconda stazione. Alle pareti i mazzi freschi di origano e di rosmarino, sgranati appena tra le dita, invadono la stanza di profumo; profumo mediterraneo in cui mi riconosco ogni volta.
Chissà le sensazioni dei nostri amici lombardi, approdati per la prima volta su quest’isola.
Capiranno? Ma come dubitarne; Sergio è l’incarnazione del dio del mare: Nettuno è qui seduto davanti alla botte del vino di sganguni, e anche il vecchio Omero potrebbe unirsi a noi.
Ecco il vino bianco, il rito della mescita e del brindisi, l’assaggio. Un altro giro. E ora il vino rosso, il primo o l’ultimo tocco dei bicchieri è con zzu Ture, che continua a colmarli, contento di bere con noi. Cominciamo a chiedere pietà – menz’ommo, zzu Ture – ma il bicchiere è sempre più pieno che vuoto. Ora sprizza dalla spina lo sganguni, il succo degli ultimi grappoli raccolti: bianco, frizzantino, profumato d’uva. Un giro, due giri, menz’ommo ancora.
Il percorso iniziatico ci ha condotto all’assaggio più prezioso: questa volta dalla botte cola il passito, denso, del colore del cognac invecchiato, del miele scuro. Il sapore dell’uva asciugata al sole: bevi, Nettuno, se non è l’ambrosia degli dei, ci siamo molto vicini. Fuori è l’imbrunire. Abbracciamo zzu Ture. Ci attende la terza stazione. Sulla piana di Sibà la casa grande e antica allinea i suoi dammusi in doppia fila, la soglia vegliata dalla vecchia pietra cacciaspiriti. Il passiaturi è un rettangolo illuminato contro il buio della campagna; senza luna, il cielo si staglia a stento contro l’orlo nero della piana. Le vibrazioni antiche si fanno più intense, pochi passi oltre il rettangolo di luce, sulla terra coltivata e invisibile. Accese le candele sulla tavola apparecchiata, spenta la luce elettrica, appaiono tutte le stelle del cielo e la striscia della Via Lattea. Gli spaghetti con i ricci pescati da Sandro stamattina e puliti nel mare, il dolce vino di zibibbo, le pesche appena colte. Intorno il silenzio assoluto, nel cerchio delle candele le voci degli amici. E poi un ballo con zzu Angelo, che ha ottant’anni e da giovane ballava il valzer come nessun altro sull’isola. Beppe lo chiama semplicemente Benessere, e oggi ci ha guidato a incontrarlo, in questa sua isola, in questa sua contrada.
Dal Nuovo Panteco speciale estate 1995
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