Non siamo Camilleri. E il nostro personaggio non è l’aiutante di Montalbano, ma Alberto Fazio, architetto e figlio di un bravo oculista (l’informazione potrebbe non essere capziosa), nato a Caltagirone qualche tempo fa e da lì sciamato per il mondo.
Alberto Fazio, che di professione è filantropo, non cessa di stupirci. Conoscevamo in lui la passione politica (quella, quasi estinta, che si fa azione concreta), ed avevamo già scoperto l’inclinazione alla musica e alla divagazione archeologica. Quella alla pittura, all’ordine del colore, ci era ignota. Una mostra di acrilici e oli al Castello medioevale ci soccorre in questa lacuna.
L’esposizione, una ventina di quadri di piccolo e medio formato, occupa due stanze del castello, ed accogliamo volentieri la nota di un altro Alberto (Bolzani), di professione gallerista, che un maggiore spazio intorno alle opere (che di certo non manca) gioverebbe alla loro individualità. Temi dei quadri sono due dei luoghi d’elezione del pittore, la Tunisia e Pantelleria, ciascuno dei quali, in quest’ordine, occupa la propria stanza. Il nesso fisico tra questi luoghi è, nella mostra, il varco di una porta. Tocca al visitatore ricostruire le trame degli altri nessi.
Della Tunisia l’artista coglie indubbiamente l’aspetto ieratico e fiabesco, forse preislamico. Anche se non manca il ritratto solitario del fedain antico, sono volti di donne, le spose di Madhia, nei cui ornamenti riaffiora quell’antica dea mediterranea che da quelle parti (ma anche a Pantelleria, sulle rive del lago) portò il nome di Ishtar. Sono, però, anche donne che, smessi gli ornamenti fiabeschi (ma mai del tutto) liberano il corpo e il pugno chiuso in una lotta che ci sorprende anestetizzati. Tra queste donne non v’è contrasto: unifica lo stile, giocato sul rifiuto della linea e sul tripudio gioioso di vaporosi colori primari, distesi con generosità e libertà.
Nella stanza dedicata a Pantelleria i temi si fanno più complessi, lirici e meno immuni alla storia personale dell’artista. Un asino sommerso dal grano dorato, che l’etichetta si ostina a dirci della Piana di Ghirlanda, è nato forse tra i monti della Sicilia interna. Un gioiello segreto (volutamente segreto, come ci avverte la didascalia che lo dichiara di proprietà privata) giace nella penombra di un angolo: raffigura una ragazza trasognata, al tavolino di un qualunque bar, che offre in primo piano il collo di gazzella e versa su una rosa l’effluvio nero dei capelli. Caso unico (e perciò ancora più lirico), il quadro vive di linee arcaiche che l’artista ha forse colto in un Martini o Casorati della sua infanzia o forse in quel Giotto che pervade Padova altro suo luogo d’elezione.
In questa stanza non mancano i rimandi all’altra, ma la tavolozza dei colori vira bruscamente e diviene espressiva. L’antico contadino pantesco è tagliato nella radica con pochi colpi d’ascia. Gli ornamenti delle donne assumono la lucentezza vitrea e nera dell’ossidiana. La fiaba ieratica di Ishtar si trasforma nel mito storico delle sirene, le quali, estranee ad ogni filologia ma aderenti alla natura dell’isola, nuotano sotto l’Arco dell’elefante.
Quali, dunque, i nessi? Un grande archeologo da poco scomparso, soleva dire che il Mediterraneo, per quanto grande sia, è pur sempre un lago. E in questo lago l’uomo si ostina ad innalzare muri invisibili che si premura subito di violare. Violano questi muri il mito e una certa dimensione eroica degli sconosciuti Ulisse di ogni tempo, i quali, beffandosi di barriere mentali, sfidano il mare che non manca di trascinare a riva i relitti di ogni fallimento. Un tempo furono Ulisse, oggi li chiamiamo clandestini. Ed è nelle cornici dei quadri, che non sono contorno, ma relitti veri, che si trova il nesso più tangibile.
Suggeriamo, come abbiamo fatto noi, di visitare la mostra al tramonto, quando le simmetrie tra la tavolozza del pittore e quella del sole che si tuffa in Tunisia propongono altre trame sorprendenti.
Fabrizio Nicoletti, Marcella Labruna
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